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Il mio Massiccio

di Pam   —   03 novembre 2017

Visto che presto i fondali di laghi e mari, saranno articolate pareti di roccia, ho pensato di portarmi avanti iniziando ad arrampicare.

Di sicuro non sarò ricordata come la donna ragno. Però dai… almeno ho smesso di avere le vertigini quando cambio le lampadine in piedi sulla sedia.

Tutto è cominciato 2 anni fa. Ma poi sono rimasta incinta di Giovanni e poco dopo di Giordano. Quindi i primi passi sulle falesie, sono rimasti eventi sporadici.

A maggio/giugno, svezzato il secondogenito, ho cominciato a far sicura a Giorgio qua e là. Nonostante il nervoso per vedere lui salire con facilità e me scivolare di 2 metri ogni metro salito, comincio a prenderci la mano.

Questo non vuol dire che ci si può minimamente fidare di me e che a ogni salita Giorgio non debba controllare nodi, rinvii, corde, scarpe, casco. E ho fatto cose davvero gravi (tipo farlo salire senza averlo ancorato al mio imbrago. Forse pensavo di poter frenare una caduta con la sola forza delle mani che facevano scorrere la corda…. Bah!). Però piano piano ho cominciato a provare soddisfazione per le salite.

Così quando per una serie di coincidenze che nemmeno a Sliding Doors s’erano mai viste, ci ritroviamo la prima settimana di agosto nelle Dolomiti, Giorgio decide che era ora di passare dalla falesia a una salita in parete.

Non avevamo che l’imbarazzo della scelta. Ma siccome stavamo nella legnaia di un bellissimo maso che affacciava su un pratone grosso come 8 campi da calcio, sovrastato dal meraviglio Sciliar, optiamo per questo massiccio appuntito. Partiamo alle 8 dalla macchina. Due ore per arrivare all’attacco, di cui un’ora su grazioso sentiero boschivo, 1 ora di inferno in una pietraia verticale in cui pensavo:

- Ma se trovo lungo salire qui, come potrò fare sulla parete???-

Meglio naturalmente non darsi risposta a certe domande.

Partiamo abbastanza agili perché l’inizio è poco più impegnativo del tragitto per arrivare all’attacco. Ma c’è tutto il tempo per arrivare a vedere i sorci verdi….

Passano le ore. L’entusiasmo iniziale per la facilità del percorso e  la bellezza del panorama, comincia lentamente a subire l’effetto della forza di gravità: l’umore comincia a perdere l’equilibrio.

E si che le soste sono tutte magnificamente terrazzate, ma tutti i tiri sono aerei. Ma che dico aerei? Lunari, spaziali, vertiginosi, turbolenti. Insomma per chi come me è abituato a stare seduto in canoa e non appeso a una liana, è difficile mantenere i nervi saldi.

Quando smetto di sentire la fame e la sete (e soprattutto la mia proverbiale voglia di fare pipì), anche Giorgio comincia a preoccuparsi. Non so più cosa fare. Siamo a metà e già il sole è sulla via del tramonto. Non so se costi più fatica salire o scendere, a questo punto. Dei colorati parapendii che decollano dall’Alpe di Siusi e galleggiano soavi in aria, mi tengono occupata la mente. Dio solo sa quanto vorrei avere una vela nello zaino e atterrare di fronte al pratone di casa, correre incontro ai bimbi e andare a farmi una doccia bollente per poi ubriacarmi con un ottimo Legren!

Ehi!! Parapendiii! Sono qui! Venitemi a prendere vi imploro!!!

E invece no. Mi tocca rimettermi ogni 20 minuti le scarpette striminzite e distruggermi le unghie salendo su questa cavolo di Dolomia.

Ogni volta che Giorgio si attarda, mi innervosisco perché so che mi aspettano cactus su per il cactus!

E ogni volta che devo lasciare una benedetta terrazza per appendermi e farmi solleticare le orecchie dai brividi verticali, mi ripeto che è l’ultima volta.

-A sissignore l’ultima volta! Ma che razza di sport è questo? Se sbaglio qualcosa muoio, se non salgo muoio, se precipito muoio.  E se non muoio per le precedenti, muoio di paura.

Comincia a essere difficile ragionare con me.

I miei dialoghi interiori prendono una piega irosa quando ad un certo punto… sento suonare… il campanello di una bici.

Ma che cavolo è? La befana in bicicletta? O forse che siamo arrivati in cima e c’è un sentiero per bici che ci porteranno velocemente a valle? Un velo di ottimismo mi riscalda il cuore. No niente di tutto ciò. E’ il passaggio chiave, dove qualche buontempone ha apposto un campanello di bici.

-Drin! C’è forse un uscita di sicurezza?

-Drin! Vorrei un caffè

-Drin! Ambrogio? Un mon cheri per favore!

-Drin! Sono Vitta, mi apre per favore?

Niente da fare. La realtà è dura come un sasso sulla testa. Armiamoci di forza e potenza e troviamo una soluzione per passare questo passaggio per me inespugnabile. Non so bene come ho fatto. Ho cercato tutti i modi possibili per barare. Ho urlato e grugnito, finché sono riuscita a scavalcare questo rebus impossibile.

Per fortuna Giorgio è su molto in alto e non sente le oscenità che dico. Credetimi: al parto sono stata assai più educata.

Continuiamo così: io in preda allo sconforto, Giorgio alla delizia, per ore. Letteralmente ore. Non finisce MAI. A un certo punto la pendenza diminuisce. Spuntano dei fili di erba. Non ho più la forza di pensare che possa esserci una fine a questa benedetta via crucis di 15 tiri.

E invece eccoci.

In cima.

La gioia è tale che riprendo tutte le energie. Si arriva su un altipiano con un tramonto roseo, delle lunghe luci gialle a scaldarci e anche segni di sentiero.

Lasciamo perdere che mancheranno ancora 3 ore ad arrivare alla macchina (per un totale di 13 ore di giro)!

Almeno posso mettermi delle calze e delle scarpe normali e dare tregua ai miei polpastrelli e sognare una pizza con pasta e patatine fritte, e una sacher al cioccolato per dessert!

(Peccato che in Tirolo i ristoranti chiudano alle 8,30. Ma questa è un’altra storia.)

Per diversi giorni ho pensato che il mio elemento è l’acqua e la terra. L’aria e la roccia le lascio volentieri ad altri.

Ma per giorni non ho fatto che salire in bici all’Alpe di Siusi per circumnavigare il magnifico Siciliar. Guardare la punta lassù e pensare di esserci stata.
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